Dopo l’attacco di Las Vegas del primo ottobre, i media statunitensi ed europei sono tornati a parlare della questione del possesso privato di armi da fuoco negli Stati Uniti d’America producendosi nella solita solfa di luoghi comuni, imprecisioni, traduzioni fatte con l’antico metodo del “ad mentula canis”. Esempio sopra tutti: una giornalista di Sky TG24 che, mentre parla con dovizia di dettagli e aria esperta della legislazione del Nevada sulle armi da fuoco, traduce ripetutamente il termine “magazines”, ovvero “caricatori”, in “magazzini per munizioni” e comunica dati sballati.
L’argomento l’avevamo già trattato in discreta profondità tra il 2015 e il 2016 con i due articoli “La propaganda alla prova dei fatti”, apparsi online e in cartaceo sul numero 31 anno 95 e sul numero 1 anno 36,[1] che invito a rileggere per le considerazioni generali e per i dati. I dati statistici negli ultimi due anni non sono affatto cambiati, infatti: tenendo sempre per buoni i famosi 30.000 morti per armi da fuoco all’anno, equivalenti allo 0.000000925% della popolazione totale, come dato di massima nel 2016 abbiamo avuto la seguente composizione:
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il 65 % di questi sono stati suicidi
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15% sono stati morti causati da agenti di polizia (di qualsiasi livello) in servizio (legalmente parlando non sono crimini ma va necessariamente aperta una questione sul perché la polizia statunitense ammazza così tanto, invito a leggere a tal proposito gli articoli segnalati in nota)[2]
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17% sono omicidi volontari avvenuti in vari contesti e con armi ottenute dalle più svariate fonti (per quanto riguarda gli omicidi nell’ambiente della criminalità quasi esclusivamente da fonti illegali)
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3% morti accidentali
Il 17% equivale a 5100 morti sul territorio federale e il 25% di questi omicidi è concentrato in quattro città: Chicago (9,4% con 480 omicidi), Baltimora (6,7% con 344 omicidi), Detroit (6,5% con 333 omicidi) e Washington D.C (2,3% con 119 omicidi). Tutte e quattro queste città si trovano in stati con delle leggi sul controllo delle armi piuttosto restrittive (Washington per altro non appartiene a nessuno stato, è distretto federale). Baltimora, Detroit e Chicago sono città con un tessuto sociale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 30 anni, tra delocalizzazioni e epidemie di consumo di stupefacenti (con annessi conflitti tra gang che le armi non se procurano da fonti legali). Le fonti dei dati di questo aggiornamento sono sempre le statistiche del CDC e di altri enti, privati e pubblici, e possono essere trovate nelle note dell’articolo già citato “La propaganda alla prova dei fatti”.
Ora, il numero di morti per omicidi commessi con armi da fuoco negli USA è più alto rispetto ad altri paesi occidentali. Siccome però è noto che la correlazione statistica non equivale alla catena causale, inviterei alle seguenti considerazioni: il numero di omicidi volontari negli USA, nonostante il numero di armi da fuoco in circolazione sia aumentato di molto, è grandemente calato negli ultimi decenni, così come in tutto il mondo occidentale, a causa di una serie complessa di fenomeni che non hanno ancora una spiegazione precisa in termini sociologici – si pensi al dibattito intorno al Global Study on Homicide (per i dati e la disanima degli stessi rimando ancora alla parte prima de “La propaganda alla prova dei fatti”). Le città del paese dove vi sono più morti per omicidi con armi da fuoco sono le stesse che hanno subito un pesante e pluridecennale processo di pauperizzazione. Questo ci dovrebbe portare a riflettere sul fatto che la maggiore incidenza di omicidi negli USA rispetto ad altri paesi occidentali non sia da ricercare nella diffusione delle armi da fuoco ma nelle dinamiche economiche maggiormente accentuate e nel pesante divario sociale. Concentrarsi sul mezzo con cui viene commesso un omicidio, per altro interpretando malissimo i dati stessi, e non sulle motivazioni sociali dell’atto non solo è fuorviante ma significa anche non fare nulla per eliminare le cause.
A proposito di epidemie di consumo di stupefacenti, citate poco sopra, il New York Times riporta[3] che nel 2016 ci sarebbero state più di 59.000 morti dovute a overdose di stupefacenti, legate alla nuova ondata nella diffusione di oppiacei – fentanyl, oxycodone che hanno largamente sostituito l’eroina in una dinamica che è tutta da analizzare – con un aumento del 19% rispetto al 2015. A queste va aggiunto il numero di morti dovute alle conseguenze a lungo periodo del consumo di oppiacei – problemi epatici, AIDS, infezioni, problemi circolatori, incidenti – in un paese dove l’accesso alla sanità è legato alle disponibilità finanziarie e dove il problema delle dipendenze è stato sempre affrontato con un rigoroso proibizionismo, se si fa eccezione per il THC in pochi stati e solo negli ultimi anni.
D’altra parte l’ondata di proibizionismo moderno si origina nella necessità di continuare a disciplinare la massa di proletariato depauperato e storicamente razzializzato.[4] Si muore dodici volte di più per la nuova epidemia di oppiacei che per le famigerate armi da fuoco, anche considerando picchi statistici come i grandi mass shooting. Si muore per le logiche del nostro modo di produzione dato che l’epidemia di consumo d’oppiacei ha colpito zone il cui tessuto sociale è stato devastato negli ultimi decenni tra delocalizzazioni all’estero ed all’interno – le migrazioni di industrie dal Midwest alla zona sud dell’Appalachia, meno sindacalizzata ed industrializzata – e sopratutto zone dove il basso reddito fa si che una grande massa sia priva di una copertura sanitaria pubblica e di conseguenza sia più facile preda delle rapaci mani dell’industria farmaceutica. Caratteristica della nuova epidemia di oppiacei è, infatti, l’essere basata su sostanze legali e prescritte allegramente da medici compiacenti, in seguito a forti campagne promozionali da parte di alcune grosse industrie farmaceutiche, per trattare dolori cronicizzati da mancati interventi risolutivi, inaccessibili a causa della mancanza di copertura medica. È il regno della merce.
Ci si potrebbe rispondere che questo panegirico sul consumo di oppiacei è frutto di una volontà di benaltrismo rispetto alla questione delle armi da fuoco. Il problema però è esattamente l’inverso: le componenti politiche che si stracciano le vesti chiedendo maggiore controllo sulla circolazione di armi sono le stesse che sono corresponsabili della devastazione sociale. La sinistra liberale avendo fallito nella sua strategia riformista, da decenni e non da ieri, per portare migliori condizioni di vita alla classe lavoratrice ed essendo diventata parimenti responsabile della devastazione della vita di centinaia di milioni di proletari – noi abbiamo memoria lunga e ben ci ricordiamo delle politiche dell’amministrazione Clinton, compresa l’orripilante legge sui tre strikes che grandemente ha contribuito all’incarcerazione di massa – si trova a essere la frazione sinistra del capitale.
In questo – facciamo finta di credere alla buona fede di certi soggetti politici – finisce per individuare problemi sbagliati o secondari, amplificarli e proponendo soluzioni che portano da un maggiore controllo sociale, cullando l’illusione di poter cambiare qualcosa rispetto alle ferree logiche del capitale una volta giunta al potere. Che una volta giunti al potere si finisca per agire in armonia con quelle stesse logiche dovrebbe essere dato assodato: questo vale sia per quelle componenti che hanno la loro origini nel socialismo riformista – il Labour in UK – che in quelle più propriamente liberali di sinistra – il Democratic Party negli USA. In termini differenti, banalmente per la questione della buonafede, questo vale anche per quelle componenti di sinistra-sinistra istituzionale, presenti in Europa ma quasi assenti negli USA.
Avendo fallito nei propri fini dichiarati queste componenti finiscono per farsi rappresentanti elettorali di frazioni dominate di classe dominante e di pezzi della piccola borghesia nonché di lavoratori dei servizi pubblici, sopratutto legati al mondo della cultura e dei servizi alla persona, le componenti della cosiddetta società civile. Avendo fallito ed essendosi convinte che il problema è rappresentato dal fatto che l’uomo sarebbe ontologicamente cattivo e non un prodotto storico, passano dalla social-democrazia alla social-misantropia: allora via con tiritere sulla necessità di più stato, più leggi, più controlli, più polizia – possibilmente direttamente introiettata negli individui – lamentele su quanto fanno schifo i poveri, che sono così maleducati, e altre amenità. Il problema non sarebbero allora le strutture sociali ma gli individui che sarebbero naturalmente pervertiti – contraddizione in termini, tra l’altro – e su cui è necessario operare una raffinata opera di disciplinamento.
L’analisi dei fattori materiali scompare completamente per lasciare spazio ad un moralismo ipocrita e perbenista: pensiamo a personaggi come Michele Serra ed alla corte dei miracoli giornalistici che vive in certe redazioni cartacee e televisive. Costoro sono l’altra faccia della medaglia rispetto ai vari fenomeni sovranisti e populisti che ammorbano questa decade. Mentre questi ultimi si concentrano sulla difesa di una sifilitica tradizione occidentale reinventata in chiave ultramoderna e pienamente capitalista (checché ne dicano certi bambocci dallo sguardo ceruleo che si fregiano del titolo di filosofo), la componente sinistra del capitale si concentra su un’espansione di facciata dei “diritti civili” mentre mantengono perfettamente intatte le fondamenta del mondo in cui viviamo. Così facendo provano a cooptare quei movimenti di massa che, contrariamente alla sinistra liberale, sono radicali ed intersezionali (o per lo meno si muovono in quella direzione), allo scopo di rinvigorirsi, cioè per rinvigorire la capacità di tenuta del sistema per intero. È il perenne tentativo di ricaptare e normalizzare tutto ciò che accenna a uscire dalla gabbia delle compatibilità, un gioco al recupero che ha caratterizzato sia la sinistra liberale sia i derivati della socialdemocrazia.
Il fatto che il nuovo movimento femminista americano, quello che ha in buona parte animato le proteste del gennaio scorso contro Trump,[5] così come BLM ed i movimenti ecologisti non si siano fatti minimamente abbindolare da un personaggio come Hillary Clinton, campionessa mondiale della visione liberal sinistra del capitale, preferendo invece lavorare su una prospettiva intersezionale e di classe, all’interno della cornice dello sciopero generale del 20 gennaio 2017, mostra quanto abbia il fiato corto la social-misantropia e il suo triste corollario: ciò che è superato marcisce; ciò che marcisce invita al superamento.
lorcon
[1] http://www.umanitanova.org/2015/10/20/la-propaganda-alla-prova-dei-fatti/ e http://www.umanitanova.org/2016/01/13/la-propaganda-alla-prova-dei-fatti-2/ reperibili anche su photostream.noblogs.org
[2] Per tentatare di capire dimensioni e motivazioni del fenomeno: https://photostream.noblogs.org/2013/10/geneaologia-della-violenza-poliziesca/ , qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/black-lives-matters/ e qui https://photostream.noblogs.org/2016/07/la-stretta-autoritaria-negli-usa/
[3] https://www.nytimes.com/interactive/2017/06/05/upshot/opioid-epidemic-drug-overdose-deaths-are-rising-faster-than-ever.html
[4] http://www.umanitanova.org/2017/03/26/fascismo-o-identita-bianca-1-parte/
[5] http://www.umanitanova.org/2017/01/23/disruptj20/